E’ con questo slogan che centinaia di migliaia di Cileni sono scesi in piazza, scatenando la brutale repressione del governo guidato da Sebastian Pinera. Una repressione che ha evocato i temp
i bui dell’11 settembre 1973, quando un golpe militare destituì (ed uccise) Salvador Allende per dare vita a una dittatura che sarebbe durata sino al 1990: carri armati per le strade, violenze, uccisioni, arresti di massa, tortura. Il Cile sembrava essersi messo alle spalle il suo indecente passato, per avviarsi in un percorso di progresso economico che ha visto il PIL – nel 2018 – crescere del 4% , con un benessere apparentemente diffuso. Ed allora i 30 pesos dello slogan (circa 4 centesimi di euro) – che riguardano l’aumento delle tariffe della metropolitana e che hanno costituito l’origine della protesta– sembrerebbero davvero ben poca cosa.
Ma in realtà questo aumento ha rappresentato la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, fatto di enormi disuguaglianze sociali. Come è noto, ciò che è seguito al golpe del 1973 è stato storicamente un vero e proprio laboratorio del pensiero economico neoliberista. In estrema sintesi, massima libertà del mercato e limitazione dell’intervento dello Stato in tutti i settori di valenza economica.
Ciò che forse non è noto è che i pilastri di questo sistema economico, pur con qualche aggiustamento marginale, sono rimasti anche dopo il ritorno della democrazia, facendo emergere con forza le sue pesantissime contraddizioni e portando la popolazione a riappropriarsi delle rivendicazioni sociali messe da parte per 30 anni e oscurate – di fatto – dalla fine della paura e dalla gioia per la libertà riconquistata. Il Cile di oggi vede l’1% della popolazione disporre del 33% dei redditi totali del Paese, mentre il 50% dei lavoratori guadagna meno di 500 euro al mese a fronte di un costo della vita assimilabile a quello europeo, con la conseguenza del ricorso delle famiglie all’indebitamento sistematico per sopravvivere (11 milioni su 18 milioni di abitanti risultano indebitati). Un lavoratore su tre si trova in condizioni di informalità, ovvero senza contratto o senza essere coperto da garanzie sanitarie e previdenziali. La percentuale della popolazione che scende al di sotto della soglia di povertà supera il 22%. Il sistema sanitario è sostanzialmente privatizzato, quello pensionistico obbliga i lavoratori a versare il 12% del proprio stipendio a fondi privati che poi erogheranno pensioni medie inferiori allo stipendio minimo. Il sistema scolastico ed universitario è estremamente sbilanciato in direzione dell’offerta privata, mentre lo Stato ha progressivamente ridotto i contributi alle Università pubbliche ed il costo delle tasse per accedervi risulta inaccessibile per numerose famiglie. Tra i Paesi Ocse, il Cile è quello che dipende di più dai privati per l’istruzione superiore (l’85,4%). Per poter accedere all’università, il 70% degli studenti ricorre a forme di credito.
Ma, più in generale, è il costo della vita ad apparire straordinariamente elevato rispetto al reddito: i recenti aumenti del costo della luce e dell’acqua, uniti all’immobilità del salario medio, hanno fornito ulteriore spinta al malcontento popolare. Risulta quindi evidente che la crescita economica del Cile è stata possibile riducendo i diritti economici e sociali della popolazione, creando altresì insostenibili livelli di disuguaglianza che hanno reso questo Paese uno dei più diseguali del mondo.
La protesta cilena ci parla, in sostanza, del fallimento di un sistema economico che fonda le radici nel neoliberismo e che nega inevitabilmente le speranze di miglioramento delle condizioni di vita di molti a favore del profitto di pochi. E che ha portato, in tutta evidenza, a quello che potremmo definire un “fermento intergenerazionale”, che unisce in un’unica rivendicazione di dignità le diverse fasce di età della popolazione.