Le ragioni della protesta in Cile: “Non sono 30 pesos, sono 30 anni”.

E’ con questo slogan che centinaia di migliaia di Cileni sono scesi in piazza, scatenando la brutale repressione del governo guidato da Sebastian Pinera. Una repressione che ha evocato i temp

i bui dell’11 settembre 1973, quando un golpe militare destituì (ed uccise) Salvador Allende per dare vita a una dittatura che sarebbe durata sino al 1990: carri armati per le strade, violenze, uccisioni, arresti di massa, tortura. Il Cile sembrava essersi messo alle spalle il suo indecente passato, per avviarsi in un percorso di progresso economico che ha visto il PIL – nel 2018 – crescere del 4% , con un benessere apparentemente diffuso. Ed allora i 30 pesos dello slogan (circa 4 centesimi di euro) – che riguardano l’aumento delle tariffe della metropolitana e che hanno costituito l’origine della protesta– sembrerebbero davvero ben poca cosa.

Ma in realtà questo aumento ha rappresentato la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, fatto di enormi disuguaglianze sociali. Come è noto, ciò che è seguito al golpe del 1973 è stato storicamente un vero e proprio laboratorio del pensiero economico neoliberista. In estrema sintesi, massima libertà del mercato e limitazione dell’intervento dello Stato in tutti i settori di valenza economica.

Ciò che forse non è noto è che i pilastri di questo sistema economico, pur con qualche aggiustamento marginale, sono rimasti anche dopo il ritorno della democrazia, facendo emergere con forza le sue pesantissime contraddizioni e portando la popolazione a riappropriarsi delle rivendicazioni sociali messe da parte per 30 anni e oscurate – di fatto – dalla fine della paura e dalla gioia per la libertà riconquistata. Il Cile di oggi vede l’1% della popolazione disporre del 33% dei redditi totali del Paese, mentre il 50% dei lavoratori guadagna meno di 500 euro al mese a fronte di un costo della vita assimilabile a quello europeo, con la conseguenza del ricorso delle famiglie all’indebitamento sistematico per sopravvivere (11 milioni su 18 milioni di abitanti risultano indebitati). Un lavoratore su tre si trova in condizioni di informalità, ovvero senza contratto o senza essere coperto da garanzie sanitarie e previdenziali. La percentuale della popolazione che scende al di sotto della soglia di povertà supera il 22%.  Il sistema sanitario è sostanzialmente privatizzato, quello pensionistico obbliga i lavoratori a versare il 12% del proprio stipendio a fondi privati che poi erogheranno pensioni medie inferiori allo stipendio minimo. Il sistema scolastico ed universitario è estremamente sbilanciato in direzione dell’offerta privata, mentre lo Stato ha progressivamente ridotto i contributi alle Università pubbliche ed il costo delle tasse per accedervi risulta inaccessibile per numerose famiglie. Tra i Paesi Ocse, il Cile è quello che dipende di più dai privati per l’istruzione superiore (l’85,4%). Per poter accedere all’università, il 70% degli studenti ricorre a forme di credito.

Ma, più in generale, è il costo della vita ad apparire straordinariamente elevato rispetto al reddito: i recenti aumenti del costo della luce e dell’acqua, uniti all’immobilità del salario medio, hanno fornito ulteriore spinta al malcontento popolare. Risulta quindi evidente che la crescita economica del Cile è stata possibile riducendo i diritti economici e sociali della popolazione, creando altresì insostenibili livelli di disuguaglianza che hanno reso questo Paese uno dei più diseguali del mondo.

La protesta cilena ci parla, in sostanza, del fallimento di un sistema economico che fonda le radici nel neoliberismo e che nega inevitabilmente le speranze di miglioramento delle condizioni di vita di molti a favore del profitto di pochi. E che ha portato, in tutta evidenza, a quello che potremmo definire un “fermento intergenerazionale”, che unisce in un’unica rivendicazione di dignità le diverse fasce di età della popolazione.

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Libia porto (e Paese) insicuro

Nell’aprile scorso, l’uomo forte della Cirenaica, generale Khalifa Haftar, ha mosso le sue truppe con l’intenzione di conquistare Tripoli ed abbattere il governo riconosciuto dalla comunità internazionale guidato da Fayez al-Sarraj.

 

Per capire cosa sta accadendo oggi in Libia occorre andare indietro nel tempo, alle sommosse popolari del 2011 (sostenute da NATO e numerosi Paesi europei) che portarono alla caduta e alla morte di Mu’ammar Gheddafi. Quella che avrebbe dovuto essere la fase di transizione per portare la Libia a libere elezioni e a un governo eletto dal popolo si è rivelata, in realtà, una condizione permanente di instabilità, frammentazione e caos interno, caratterizzata dalle contrapposizioni delle numerose milizie tribali che formavano la coalizione degli insorti e dalla spartizione – di fatto – del territorio libico sulla base di aree di influenza.

D’altra parte, come spesso è accaduto negli ultimi decenni, l’intervento occidentale non si è posto il problema di comporre la crisi politica, sociale ed istituzionale che una guerra (soprattutto se civile) inevitabilmente provoca, ma ha lasciato ad una ONU ormai scarsamente autorevole l’onere di (ri)mediare, favorendo soluzioni improbabili e ben poco rappresentative della composita realtà libica, costituite da governi deboli che, se mai hanno tentato di affermare l’autorità del potere centrale sui diversi gruppi paramilitari al fine di disarmarli o di integrarli nell’esercito nazionale, hanno comunque regolarmente fallito nel loro proposito.

La dissoluzione della Libia si è così costruita tra apparente anarchia e robusti centri di potere politico-militari, unendo le spinte identitarie e tribali agli interessi economici legati alle immense ricchezze energetiche del Paese. E alimentando all’ennesima potenza il ricco business del traffico di esseri umani, ovvero configurandosi come principale base da cui imbarcare i migranti provenienti da ogni parte dell’Africa, con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

Ma sarebbe ingeneroso, oltre che miope, addossare esclusivamente agli spregiudicati centri di potere libici la responsabilità di questa dissoluzione. Perché la Libia è, in realtà, un terreno sul quale si giocano – senza esclusione di colpi – diverse partite in ambito economico, religioso e strategico, spesso intrecciate tra loro.

Non può sfuggire, infatti, come le ricchezze del sottosuolo (petrolio e gas naturale) rappresentino un “tesoro” che le grandi aziende multinazionali europee (soprattutto la francese Total e l’italiana ENI) si contendono, affermando la loro presenza con accordi miliardari, tecnologia e rapporti di partenariato.

Non può neppure sfuggire, d’altra parte, il ruolo esercitato da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi da una parte e Turchia e Oman dall’altra, impegnati ad affermare una diversa e contrapposta visione dell’Islam che possa estendersi e prevalere all’interno delle nazioni di osservanza Musulmana, ivi compresa la Libia.

Sullo sfondo (ma neanche tanto) si muovono poi Stati Uniti e Russia, intenti ad ampliare la loro influenza strategica sulla base delle garanzie politiche e militari che i diversi “attori” dell’intricato scenario libico di volta in volta riescono a offrire.

E gli “attori” principali – come detto – in questo momento sono Khalifa Haftar e Fayez al-Sarraj. Difficile dire come finirà: la guerra in atto rischia di provocare un’ennesima crisi umanitaria (vittime, sfollati, aumento dell’immigrazione) senza per altro risolvere i problemi di stabilità politica ed istituzionale di cui il Paese avrebbe bisogno come l’aria. E’ invece probabile che questa guerra sia funzionale per Khalifa Haftar al raggiungimento di una posizione di maggior forza – a livello di controllo del territorio e degli impianti energetici – in modo da ottenere una aumentata attendibilità al tavolo della prossima, prevedibile conferenza di pace.

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Siria: quale futuro?

Negli ultimi mesi il conflitto siriano è piombato in un silenzio insolito ed irreale, tale da far pensare che la guerra – dopo ben 7 sanguinosissimi anni – si sia conclusa.

Non è esattamente così: se è vero che, dopo la terribile battaglia di Idlib, le forze governative hanno ormai preso il controllo di gran parte del Paese, è altrettanto vero che gli scontri si susseguono in alcune zone ancora sotto occupazione jihadista e di quel poco che resta dell’Esercito Siriano Libero, accompagnati dai metodici e mirati bombardamenti degli aerei russi e della coalizione a guida americana i cui risultati (e conseguenze) si sa sempre poco o nulla.

Ma è oggettivamente un dato di fatto che il dittatore siriano Bashar al Assad ha militarmente vinto. Il sostegno fornitogli da Iran, Russia ed Hezbollah libanesi ha contribuito in modo determinante al suo successo, garantendogli di rimanere al comando di quella che non è più una nazione, ma un ammasso di macerie. Oltre 350.000 morti e milioni di profughi interni o dispersi tra Libano e Turchia costituiscono il pesantissimo prezzo pagato dalla popolazione civile in quella che a ragione viene definita catastrofe umanitaria. Un prezzo insopportabile che, viceversa, non deve aver scosso più di tanto gli attori di questa ennesima tragedia del nostro tempo, tutti intenti a “difendere” i propri interessi nell’area mediorientale che nulla centrano con le ragioni che hanno portato parte del popolo siriano ad insorgere.

Se ci pensiamo, la presenza diretta o indiretta nel conflitto di Stati Uniti, Russia, Iran, Israele, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, alla ricerca di riposizionamenti politici, economici, geostrategici e di supremazia religiosa hanno fatto di questo conflitto qualcosa che esula dalla guerra civile convenzionale, per tramutarla in uno scontro di potere senza esclusione di colpi consumatosi sulla pelle del popolo siriano.

Non è un caso se le conferenze di pace di Astana, di Sochi e di Ginevra, dovendo comporre esigenze così contrapposte, sono miseramente naufragate alla prova dei fatti, lasciando la Siria nell’angosciante interrogativo di un futuro di ricostruzione e di riconciliazione che stenta anche semplicemente ad affiorare.

Perché il costo stimato per rimettere in sesto il Paese è indicativamente pari a 300 miliardi di euro, somma di cui ovviamente non dispongono né la Siria né i suoi alleati: l’economia siriana è crollata, la povertà dilaga, l’inflazione è incontrollabile, il debito esploso, le infrastrutture devastate. In un rapporto del luglio 2017, la Banca mondiale ha stimato il costo delle perdite dovute alla guerra a 226 miliardi di dollari (183 miliardi di euro). L’equivalente del prodotto interno lordo di una nazione ricca come la Finlandia, e quattro volte il valore del PIL della stessa Siria prima del conflitto. Inoltre, il 27% degli immobili della nazione risulta ormai distrutto, mentre la quota, nel caso dei centri sanitari (ospedali e altri presidi) e degli edifici scolastici, sale al 50%.

Un paese raso al suolo, in tutti i sensi.

In questo drammatico contesto economico si inserisce poi il tema fondamentale del rientro di milioni di profughi in un Paese nel quale non vi sono garanzie umanitarie e legali, manca la certezza di non essere arrestati, non vengono garantite né l’abitazione né attendibili possibilità di lavoro e – comunque – di inclusione sociale, politica ed economica.

Inoltre, ad essere fortemente compromesso è anche il futuro delle nuove generazioni di siriani: meno della metà dei bambini in età scolare frequenta effettivamente la scuola, sostiene un rapporto delle Nazioni Unite, e questo avrà un impatto drammatico sul futuro del paese. In termini economici, l’assenza dei bambini dalle classi scolastiche (per ragioni che vanno dalla mancanza fisica di scuole, distrutte dalle bombe, fino alla paura dei genitori di mandarli fuori) rappresenta una perdita di 24 milioni e mezzo di dollari a livello di capitale umano e di 16,5 miliardi di dollari di investimenti in materia di istruzione.

Appare evidente che il futuro della Siria è legato a quanto essa potrà assicurare ad altri Paesi investitori in termini di concessione di risorse (petrolio in primis), insediamenti economici e basi militari. Ovvero, se davvero le armi dovessero definitivamente tacere nei prossimi mesi il futuro non sarà il risultato di una soluzione politica condivisa tra siriani, ma solo quello garantito dai compromessi raggiunti dalle potenze che ne influenzeranno le principali decisioni. Una pace imperfetta, con una ricostruzione che rischia amplificare le iniquità e le ingiustizie, e che invece di una nuova rinascita per la Siria potrebbe trasformarsi nell’incubatrice di nuove tensioni.

Comunque la si pensi, questo Paese non sarà mai più la stesso.

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Missione in Niger: curare l’effetto e non la causa

E’ di pochi giorni fa la conferma da parte del nostro governo dell’invio di un contingente militare italiano in Niger con compiti di addestramento delle forze locali col fine dichiarato di contrastare il commercio di esseri umani. Il Niger è infatti la più importante porta di passaggio per la Libia, dalla quale – come è noto – i migranti provenienti dai luoghi più diversi dell’Africa si imbarcano, destinazione Europa (e più spesso Italia).

Il Niger è uno dei Paesi più poveri del continente africano. Ciò nonostante, ospita almeno 300.000 profughi provenienti dalle zone di guerra delle aree limitrofe.

La sua principale risorsa economica è costituita dall’uranio, sul quale pare abbiano da tempo messo le mani Francia e Cina, lasciando le briciole al Paese.

Il Niger è in testa alla lista degli stati prioritari del Programma Alimentare Mondiale, a rischio di prosecuzione per mancanza di risorse. L’autosufficienza alimentare è un miraggio, in un paese prevalentemente desertico.

La situazione istituzionale e politica è a dir poco confusa e discutibile: repubblica semipresidenziale, il Paese ha al suo comando dal 2011 (a seguito di golpe) il presidente Mahamadou Issoufou che, alle ultime elezioni, ha ottenuto un consenso all’apparenza plebiscitario, guarda caso con i principali oppositori in carcere o in esilio.

Fatta questa frettolosa ma doverosa premessa, e ricordato – di passaggio – che ai tempi di Gentiloni chi è adesso al governo aveva espresso non poche perplessità sulla spedizione militare, viene da dire che la priorità dovrebbe essere l’incentivazione dei progetti di cooperazione allo sviluppo finalizzata alla crescita economica e democratica di questo sventurato Paese.

E invece no. Quello che sta a cuore all’Italia e più in generale all’Europa pare essere la lotta ai mercanti di vite umane che prosperano nell’area. Nobile intento, per carità.

Tuttavia, una domanda semplice semplice la politica dovrebbe preventivamente porsela. Ovvero: i migranti esistono perché esistono i “commercianti” di esseri umani o non è piuttosto il contrario? Non è che i delinquenti che sfruttano la disperazione di tanta gente lo possono fare perché questa gente, che non ha nulla da perdere, è disposta addirittura a giocarsi la vita pur di ipotizzare un futuro appena decente?

E’ oggettivamente dimostrato che i migranti scappano da guerra, fame, malattie e miseria: “bloccare” chi li sfrutta può anche dare dei risultati nell’immediato, ma non risolve certo l’atavico problema della condizione di arretratezza e di povertà di tanta parte del continente africano, in gran parte provocata – e qui si aprirebbe un capitolo infinito – dalla brutalità del colonialismo prima e dal cinismo delle multinazionali poi.

In assenza di un grande piano di investimenti, libero da interessi economici portatori di corruzione e disuguaglianze, unito a uno sforzo teso alla sviluppo di una cultura e di una pratica di autodeterminazione, c’è davvero chi pensa che sbarrare le frontiere del Niger può risolvere, almeno in parte, il problema delle migrazioni?

Come si fa a non capire che la semplice chiusura di un confine, non accompagnato da un progetto teso a migliorare la qualità della vita degli Africani, comporterà la ricerca di un’altra frontiera da varcare?

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La scelta di Trump

Il 6 dicembre 2017 il presidente americano Donald Trump ha annunciato ufficialmente il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e l’intenzione di spostarvi l’ambasciata USA. Il 14 maggio scorso l’ambasciata americana è stata inaugurata. Il prezzo di sangue pagato dai palestinesi nelle manifestazioni di protesta per questa scellerata decisione è stato di 66 morti e migliaia di feriti. Grande clamore, grandi polemiche. Ma poi, come da succede da 70 anni, tutto rientra, tutto si ridimensiona. Sino alla prossima, inevitabile crisi.

Ed invece abbiamo il il dovere di non assuefarci a questo stato di cose. Abbiamo il dovere di continuare ad interrogarci sulle ragioni di una tragedia che ci accompagna, immutabile, in pratica da quando siamo nati. Senza timore di denunciare le responsabilità di chi continua a gettare irresponsabilmente benzina sul fuoco di una contrapposizione che continuamente rischia di diventare (e in gran parte già lo è) di civiltà.

Non dobbiamo smettere di approfondire, di interrogarci per capire.

Ed allora proviamo a ricordare che Gerusalemme ha sempre rappresentato un simbolo irrinunciabile di identità territoriale, precariamente mediato dalla iniziale suddivisione in parte Ovest (israeliana) e parte Est (araba): status drammaticamente ribaltato con l’annessione di tutta la città da parte di Israele dopo la guerra dei 6 giorni del 1967.

Gerusalemme continua ad essere, a distanza di anni, una ferita aperta, ben lontana dal cicatrizzarsi. Rappresenta per tanta parte palestinese non solo l’idea di appartenenza a un popolo, ma anche (quantomeno per la parte est) la capitale del futuro ambìto stato.

Se, viceversa, la rivendicazione israeliana di Gerusalemme capitale, una e indivisibile, trova il pieno sostegno dell’amministrazione americana, va da sé che una situazione già storicamente compromessa da una conflittualità mai sopita ed anzi ulteriormente inasprita dalle mai dimenticate, terribili operazioni militari su Gaza, nonché dalle recenti e ripetute manifestazioni del venerdì per il “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi alla propria terra rischia davvero di precipitare irrimediabilmente a un punto di non ritorno.

Non a caso anche la stessa Unione Europea, spesso ambigua e titubante, ha definito sbagliata la decisione degli Stati Uniti, affermando che “lo status finale della città deve essere risolto con negoziati diretti tra le parti”, auspicando che nell’ottica della formula dei due Stati Gerusalemme possa diventare la capitale di entrambi.

Sulla stessa linea si è collocata l’Assemblea generale dell’ONU che con il voto di 128 Paesi (tra cui il nostro) ha bocciato senza appello la sortita di Trump, ricevendo in cambio la rabbiosa ed indegna reazione dell’ambasciatrice USA Nikki Haley, che ha dichiarato senza vergogna che è intenzione della amministrazione americana “prendere i nomi di chi ha votato contro”, e che è un voto che gli USA “terranno a mente”, paventando il taglio degli investimenti.

La decisione di Donald Trump non rappresenta soltanto una mossa disastrosa per le speranze di rilanciare il processo di pace che – va ricordato – è attualmente fermo, ma colpisce soprattutto la residua credibilità degli Stati Uniti come mediatori di pace, rendendoli parte del problema mediorientale, e non i fautori di una equa soluzione.

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Italia ripensaci

Il 7 luglio 2017 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato con 122 voti a favore il “Trattato sulla proibizione delle armi nucleari”. Hanno votato contro 38 nazioni, tra cui l’Italia. Dal 20 settembre 2017 il trattato è aperto alla firma degli Stati che intendano ratificarlo e in 40 lo hanno già fatto.

Nel nostro Paese sta circolando da mesi una petizione, “Italia ripensaci”, promossa da “Senz’atomica” e dalla “Rete Italiana per il disarmo” e poi fatta propria da tantissime altre associazioni pacifiste e della società civile, con la quale si sollecita l’Italia a ratificare il Trattato, rivedendo la scellerata decisione del disimpegno.

La vicenda fornisce l’occasione per ricordare, ai tanti che non lo sanno, che con una delibera del consiglio comunale del 17/04/1986 il Comune di Reggio Emilia è stato dichiarato ”Zona libera da armi nucleari”, grazie all’impegno del movimento pacifista e di Paride Allegri, che presentò il testo della mozione in sala del Tricolore.

Il testo e il significato della delibera non furono pubblicizzate, tutt’altro. Si era ancora in clima di guerra fredda e un gesto unilaterale di denuclearizzazione era visto da tutte le forze politiche, come una atto di debolezza politicamente sconveniente. Nessun manifesto, nessun cartello, nessuna conferenza stampa, nessuna dichiarazione. Un atto da sottoscrivere a denti stretti e da mettere immediatamente nel cassetto.

Una tale ipocrisia non poteva essere accettata. Ed allora il movimento per la pace pensò di bypassarla attraverso al realizzazione e il posizionamento all’ingresso della città di cartelli che informassero chi transitava che Reggio Emilia era una città denuclearizzata.

Quei cartelli non ebbero lunga vita. In poche settimane vennero smantellati e mai sostituiti.

Ma la delibera no, quella non risulta essere mai stata smantellata o rettificata: Reggio Emilia, 32 anni dopo, è ancora una città libera da armi nucleari. Visto che il dibattito sulle armi nucleari è ancora terribilmente attuale, non è inutile ricordarlo.

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Catalogna: tra identità nazionale e legalità

Il 27 ottobre 2017 il Parlamento di Barcellona dichiarava l’indipendenza della Catalogna e la sua configurazione come stato sovrano distinto dalla Spagna. A favore si contavano 70 voti, 2 gli astenuti e 10 i contrari, mentre 53 parlamentari dell’opposizione abbandonavano l’aula in segno di protesta.

Si consumava così l’ultimo atto della contrapposizione tra governo centrale e governo regionale, segnata da tensioni, violenze, manifestazioni di piazza ed ultimatum che ha occupato per mesi le prime pagine dei media e diviso l’opinione pubblica.

Alla dichiarazione di indipendenza sarebbero seguiti il pronunciamento della Corte Costituzionale spagnola, che ne dichiarava la nullità, l’applicazione dell’art.155 della Costituzione, che ha consentito al governo centrale di sciogliere il Parlamento regionale e di commissariarlo, l’indizione di nuove elezioni per il 21 dicembre, nonché l’incriminazione (e per molti anche l’arresto) dei componenti della Generalitat de Catalunya con l’accusa di ribellione, sedizione, malversazione, abuso di potere e disobbedienza.

Si è trattato in tutta evidenza di un evento clamoroso, sicuramente il primo che ha toccato in modo così eclatante un importante Stato europeo, di fronte al quale occorre chiedersi, quali siano le ragioni storiche, politiche, economiche e sociali che hanno portato a uno strappo di tale portata. In considerazione del fatto che l’aspirazione all’indipendenza non è un fenomeno isolato ma riguarda – con connotati diversi ed eterogenei – altre realtà territoriali (Paesi Baschi, Galizia, Scozia, Corsica, Fiandre, Baviera e persino la c.d. Padania di leghista memoria) ed è suscettibile di mettere in discussione non solo le singole unità nazionali, ma il senso stesso di appartenenza a una comunità.

Conoscere per capire, quindi.

La Catalogna è una comunità autonoma che si dichiara nazione nel suo stesso Statuto: ha proprie peculiarità linguistiche (più che la lingua ufficiale, il castigliano, si parla il catalano), ma rivendica soprattutto ragioni identitarie storiche ed economiche: spesso separata dal resto della Spagna dall’alternarsi di dinastie reali (circostanza che sino all’avvento del dittatore Franco ha comportato alti livelli di autonomia), durante la guerra civile del 1936-39 si schierò per la fazione repubblicana che finì sconfitta e ne pagò duramente il prezzo in termini di repressione e di ridimensionamento del grado di autogoverno, al punto che la stessa lingua catalana venne dichiarata illegale.

Regione da sempre più industrializzata della Spagna, è attualmente sede di migliaia di società multinazionali e contribuisce nella misura del 19% al PIL spagnolo, lamentando di contro una inadeguata restituzione di risorse economiche da parte del governo centrale che, nel 2012, ha tra l’altro respinto una richiesta di maggiore autonomia fiscale avanzata dalla Catalogna.

Nato agli inizi del ‘900, l’indipendentismo catalano ha alternato periodi nei quali l’obiettivo predominante è stato il raggiungimento di un maggior grado di autonomia amministrativa e fiscale ad altri in cui si è delineato come attuabile un vero e proprio distacco da Madrid.

Sicuramente, la crisi economica globale iniziata nel 2008 ha dato nuovo slancio al motore indipendentista, che già nel 2014 era riuscito ad indire una consultazione popolare per l’autodeterminazione, tuttavia non tenutasi in quanto dichiarata illegittima dal Tribunale Costituzionale spagnolo.

Ma la vera svolta che avrebbe poi determinato la crisi istituzionale e politica dello scorso ottobre è rappresentata dall’esito delle elezioni regionali del 2015, che hanno assegnato la maggioranza dei seggi alla coalizione formata dai partiti indipendentisti Junts pel Sì e Candidatura di Unità Popolare (CUP) e che, sotto la guida di Carles Puigdemont, hanno di fatto dato nuova linfa a un progetto di breve periodo che ha portato al referendum del 1° ottobre 2017, accompagnato da imponenti manifestazioni di piazza a sostegno ma anche – è il caso di ricordarlo – da cortei di segno opposto.

Il quesito proposto (“Vuoi che la Catalogna diventi uno Stato indipendente in forma di Repubblica?”), scritto rigorosamente in catalano, non dava spazio ad equivoci di sorta.

Anche in questa occasione il referendum è stato dichiarato illegale dal Tribunale Costituzionale spagnolo e conseguentemente non riconosciuto dal governo centrale che ha immediatamente inviato migliaia di agenti di polizia resisi protagonisti – lo si ricorderà – di atti di ingiustificabile violenza al fine di non consentire lo svolgimento della consultazione.

L’affluenza – al netto delle intimidazioni e delle vere e proprie aggressioni – è stata del 43,3% degli aventi diritto, con una maggioranza a favore del sì di oltre il 92%.

A onor del vero, appare legittima l’obiezione in base alla quale una minoranza (seppur qualificata) di elettori non può determinare il destino di un popolo. Perché è sicuramente vero che la consultazione è stata condizionata da prepotenza, brutalità, minacce, e addirittura dall’occupazione di seggi elettorali da parte della polizia, ma è altrettanto vero che chi l’ha indetta non poteva non aver messo in conto la forte conflittualità con lo stato centrale che ne sarebbe conseguita.

Così come non è irrilevante il fatto che la dichiarazione d’indipendenza successiva al referendum sia stata votata da una maggioranza parlamentare assolutamente risicata.

Ciò che francamente lascia confusi e perplessi, in tutta questa vicenda, è la convinzione del governo della Catalogna di poter uscire indenne da una prova di forza così dura, con la quale ha sfidato non solo il governo spagnolo, ma anche la stessa Unione Europea, che si è affrettata a non riconoscere l’esito referendario e a stigmatizzare la pericolosità di iniziative unilaterali indipendentiste avendo ben presente i rischi di analoghe iniziative in altre zone dell’Europa.

Al di là delle convinzioni e dei dubbi, la vicenda della Catalogna chiama in causa il significato stesso di democrazia, nel momento in cui mette di fronte il diritto a dare vita a una comunità nazionale a cui si sente di appartenere e il diritto di uno Stato a mantenere la propria integrità territoriale e politica. Chiama in causa la legittimità della creazione di uno stato sovrano sulla base di un pronunciamento non plebiscitario ma a semplice maggioranza.

Chiama in causa il significato della autonomia amministrativo- legislativa in rapporto alla rigidità dello stato centrale.

E chiama in causa, infine, le modalità attraverso cui uno Stato sovrano legittima se stesso, nonché le ragioni della convivenza e della solidarietà all’interno di una comunità nazionale.

Materia sufficiente su cui riflettere.

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La guerra in Siria. Perché è cominciata e perché non finisce

Il 15 marzo 2011 migliaia di persone scesero per le strade di diverse città della Siria dando vita a una serie di manifestazione contro il regime del Presidente Bashar Al Assad, accusato di autoritarismo e di violazione sistematica dei diritti umani. La scia di quella che è stata definita come “primavera araba”, che in tanti Paesi dell’area mediorientale andava costruendo l’idea di un assetto istituzionale maggiormente improntato ai principi democratici, cominciava a farsi largo anche in Siria dove ininterrottamente dal 1970 il potere è nelle mani della famiglia Assad (Hafiz prima, poi, per successione, il figlio Bashar) e della minoranza religiosa alawita, di matrice sciita.

La repressione non si è fatta attendere ed è stata violenta, sanguinosa, inequivocabile: nessuno spazio per una sorta di transizione verso la democrazia, “Assad o nessuno”.

Da allora, il conflitto è stato un tragico crescendo: da una parte l’esercito siriano, sostenuto nel tempo dall’Iran e dagli Hezbollha libanesi, dall’altra l’opposizione che si riunisce sotto la sigla dell’Esercito Siriano Libero e il suo progressivo ridimensionamento a favore delle forze più agguerrite dell’integralismo religioso sunnita (da Al Nusra all’ISIS).

Nel mezzo la partecipazione della Russia e della coalizione occidentale con bombardamenti senza soluzione di continuità.

Risultato? A distanza di oltre 6 anni, la guerra ha prodotto oltre 470.000 morti e un numero imprecisato di feriti (soprattutto civili), intere città rase al suolo, 12 milioni di sfollati interni o nelle nazioni confinanti, una situazione umanitaria catastrofica.

Un Paese che sopravvive nelle sue macerie.

Alla luce di quanto accaduto, sembrerebbe quindi un conflitto facile da spiegare, nella sua terribile linearità. Ma non è esattamente così, perché gli interessi in campo sono numerosi e divergenti.

Il Qatar è il terzo produttore di gas naturale al mondo. Tuttavia le sue esportazioni sono limitate all’Asia e non arrivano in Europa, per raggiungere la quale avrebbe bisogno di un gasdotto che passasse dalla Siria, provvista di sbocco sul Mar Mediterraneo. Destabilizzare la Siria significherebbe per il Qatar l’attuazione del suo progetto. Ma la Russia, principale alleato e partner economico della Siria, si oppone in quanto ciò modificherebbe l’attuale dipendenza europea dai rubinetti di Putin.

La Russia mantiene inoltre nel porto siriano di Tartus il suo unico avamposto nel Mediterraneo e non può consentire l’avvento di un regime di stampo rigidamente teocratico a lei ostile.

Arabia Saudita, Kuwait e (ancora!) Qatar mirano al dominio sunnita sul mondo arabo e pur di vincere questa battaglia di potere e di influenza non esitano a finanziare quell’ISIS che a parole condannano.

A loro, per identici motivi di peso ed autorevolezza nel mondo arabo, si contrappone l’Iran, a prevalente confessione sciita.

La Turchia teme la possibilità che nel nord della Siria si realizzi una zona simile a quella del governo regionale del Kurdistan in Iraq e non disdegna di sconfinare pur di combattere anche solo l’idea dell’autonomia curda.

Nel mezzo, gli Stati Uniti e i suoi alleati, che si sono mossi per pura esigenza di controllo di una zona ritenuta economicamente e strategicamente fondamentale e che ora si trovano in una autentico impasse (chi dopo Assad?).

Insomma, un autentico puzzle di interessi divergenti, tali da far ritenere ardua una soluzione del conflitto che possa in qualche modo ricomporli in tempi brevi. Soprattutto se chi per definizione è deputato a questo compito, ovvero l’ONU, è immobilizzato dalla logica dei veti contrapposti che rende sterile, se non inutile, ogni sforzo negoziale.

In Siria, intanto, si continua a morire.

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Nel 2016 sono sbarcate sulle coste europee 27.000 profughe. Donne che scappano non solo dalla guerra, ma anche dagli abusi, dalle violenze, dalla negazione dei diritti umani di genere così opprimente nei loro Paesi di origine. Per loro, la migrazione rappresenta una sorta di atto di resistenza e di ribellione alla propria condizione, un atto intrapreso al fine di rivendicare la propria dignità e un’esistenza che non sia pura sottomissione. Per un uomo che intenda addentrarsi in questa sorta di girone infernale la difficoltà non sta tanto nel raccontare le loro storie, contraddistinte dal crescendo di traumi fisici e psicologici che sono costrette a sopportare. La difficoltà sta nello spiegare il vissuto che si portano dietro, le paure, le sofferenze, le sensazioni più intime: in una parola, un universo femminile fatto di forza, di determinazione, di sopportazione e di impensabile fiducia nel futuro (per sé e per il bambino che spesso portano in grembo). Ed allora mi sembra giusto lasciare che tutto ciò sia descritto da dalla sensibilità di Irene Santoni, coordinatrice di Free Woman – Onlus, che si occupa della tutela dei diritti ed accoglienza delle immigrate, intervistata dal quotidiano “Repubblica” nel giugno scorso.

Cosa succede durante il viaggio a queste donne?

«Innanzitutto, va detto che il viaggio non è solo la traversata sul barcone, ma è composto da tanti step prima dell’arrivo in Italia. Molte di loro arrivano dal Gambia, dove c’è una dittatura, e dalla Somalia, ma la maggior parte proviene dalla Nigeria, che ha un tipo di emigrazione prevalentemente femminile: non solo, infatti, sono per lo più donne a lasciare la loro terra, ma sono donne anche quelle che organizzano la tratta, le madame che gestiscono il traffico. A loro, prima di partire, si fa giuramento di fedeltà, che va rispettato “se vuoi che non accada nulla alla tua famiglia” si sentono dire. Molte di queste donne sono già mamme che vengono minacciate con l’uccisione dei figli se non stanno ai patti».

E dalla Nigeria, dove vanno?

«Una tappa fissa è Agadez, al confine tra Libia e Nigeria. Spesso si arriva di notte, a bordo di pulmini che vengono fermati, le donne sono portate in mezzo al deserto, dove avviene il primo stupro di gruppo. E in questo buio iniziano a scomparire come individui: è la prima fase di annientamento della loro persona. Poi vengono vendute alle connection house, una specie di bordelli dove vengono incatenate e violentate. A questo punto non c’è scelta: o accetti o muori. A dar loro la forza di sopportare è il pensiero della famiglia nel loro paese d’origine che ha fatto un investimento enorme per il viaggio, circa 30-40 mila euro. Non possono mollare».

Poi cosa succede?

«Da Agadez vengono condotte sulle coste libiche e, se vogliono partire per l’Italia, devono pagare ancora. Ma a quel punto, devono sperare di non salire sul barcone che gli scafisti hanno deciso di affondare dopo aver intascato il denaro. Se, invece, capitano su un mezzo che hanno interesse a far arrivare a destinazione per sfruttare le persone a bordo, faranno un viaggio costipate dentro un barcone, continuamente minacciate di morte. E in mare il confronto con la fine è costante».

Come arrivano a destinazione queste donne?

«Non si sentono più esseri umani. Sono annientate e, prima che di asilo politico, hanno bisogno che venga riconosciuto loro lo status di persona».

Qual è il sentimento prevalente in loro quando le incontra?

«La rabbia. Soprattutto nei confronti di se stesse in quanto pensano di essersi meritate tutto quello che è capitato. Questo è quanto fanno credere loro, per alimentarne la sottomissione. Il compito di noi operatori è aiutarle a attraversare la tempesta che hanno dentro, senza affondare con loro. Non è facile».

Perché?

«Perché devono confrontarsi con la frustrazione del fallimento. Dopo tutta la fatica che hanno fatto non trovano il sogno dell’Europa che era stato promesso loro prima di partire: questo le distrugge. E, in più, sono costrette a soffocare il trauma di quanto hanno vissuto: non possono parlarne con la famiglia d’origine, con le loro madri o figlie. Dall’Africa non credono al fatto che si trovino in una condizione di indigenza, pensano che si siano arricchite, che non vogliano mandare i soldi a casa».

Capita che arrivino da voi incinte?

«Sì, e se la gravidanza è frutto di stupri subiti durante il viaggio soffrono terribilmente. Chi ce la fa abortisce, ma chi ha superato il tempo gestazionale per farlo, scappa o cerca situazioni che mettono in pericolo se stessa e il bambino».

Sono situazioni molto dure, estreme. Come operatrice dove trova la forza per affrontarle e non rimanerne sopraffatta?

«Non è facile, serve tanta formazione, serve prepararsi molto per essere in grado di reggere il dolore. È indispensabile, perché se si accorgono che non sei in grado di sostenere la situazione, si chiudono e non si fanno aiutare».

Come fa a lasciare fuori dalla porta tutto questo dolore la sera quando rientra a casa?

«Mi aiuta una frase di un mio insegnante: la mente umana può sopportare qualsiasi dolore se viene sostenuta dopo averlo provato. Alla fine della giornata so che con il mio impegno e quello delle persone impegnate nell’accoglienza insieme a me posso contribuire a alleviare questa sofferenza. Ogni giorno per noi è un viaggio all’inferno, ma facciamo di tutto perché non sia di sola andata. Investiamo tutto sul ritorno».

 

 

 

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Aiutiamoli a casa loro? Come no…

unknownA fine ottobre di quest’anno gli sbarchi di profughi sulle coste italiane hanno toccato quota 153.450, il 10% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Tra questi, 20.000 minori non accompagnati (nell’intero 2015 sono stati 12.000). I morti in mare ufficialmente accertati sono 3.800, rispetto ai 3.771 del 2015.  Di fronte a questi numeri terribili, l’Unione Europea discute, rettifica, si divide, litiga, si ricompone, si fa carico, definisce, proclama, delega, dispone. Poi di nuovo discute, rettifica, si divide e così via, in una sorta di sconcertante balletto delle intenzioni che finisce per perdersi nel mare della complessità del fenomeno. Accoglienza e diffidenza si alternano a seconda della consistenza dei flussi migratori e della drammaticità del momento, generando nuovi sensi di colpa e paure, comprensione o veri e propri muri.

L’opinione pubblica segue con evidente preoccupazione e inquietudine gli eventi. Nel nostro Paese si affligge di fronte alle immagini che raccontano la disperazione ma subito dopo spesso si imbarazza di fronte alle ipotesi di accoglienza che richiedono un coinvolgimento delle comunità locali e addirittura si indigna sui costi di questa accoglienza. Fino all’affermazione liberatoria che spazza via ogni accusa di insensibilità e pulisce la coscienza: “Aiutiamoli a casa loro!”. Suona bene, “aiutiamoli a casa loro”, ha un impatto emotivo ed etico indiscutibile: chi potrebbe mai contestare la proposta di investire in tecnologia, sviluppo e lavoro nei Paesi di origine di chi arriva sulle nostre coste?

Però c’è un però: da dove vengono i profughi? Si può davvero aiutarli “a casa loro”?

Le statistiche del 2016 dicono che il 20% di questi fuggiaschi viene dalla Nigeria, il 12% dall’Eritrea, il 7% dalla Guinea, il 6% dal Gambia, un altro 6%dal Sudan, il 5% dalla Somalia e un altro 5% dal Mali.

E’ sicuramente utile provare a capire da quale condizione fuggono.

La situazione interna della Nigeria è caratterizzata da sommosse, conflitti e rapimenti, specialmente nella regione produttrice di petrolio del delta del Niger. Povertà, violazione dei diritti umani, corruzione dilagante si accompagnano, nel nord del Paese, alle violenze efferate degli estremisti islamici di Boko Haram. In più, distruzione dell’ambiente dovuta all’indifferenza della grandi compagnie petrolifere e milioni di persone che non hanno accesso all’acqua potabile.

L’Eritrea è definita dallo United Nations Human Rights un Paese in cui “il governo è responsabile di violazioni flagranti, sistematiche e generalizzate dei diritti umani” di dimensioni raramente riscontrabili in altri Stati, con un apparato capillare di controllo della popolazione infiltrato a tutti i livelli della società. Carcere duro, tortura e sparizioni sono all’ordine del giorno.

La Guinea fatica tremendamente nell’uscire dal feroce regime dittatoriale di qualche anno fa, considerato tra i peggiori mai esistiti. Instabilità politica, conflitti tribali, potere militare corrotto, insicurezza diffusa, persecuzioni rendono difficile per la popolazione avere prospettive di vita appena decenti.

Il Gambia ha appena due milioni di abitanti, eppure è tra i primi Paesi da cui provengono coloro che cercano di entrare in Europa attraversando il Mediterraneo. Il motivo è che il presidente Yahya Jammeh lo “amministra” col terrore da oltre 20 anni. Secondo Human Rights Watch, in Gambia sono abituali le violazioni dei diritti umani, con casi ripetuti di sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e ricorso alla tortura.

Omar Hassan al Bashir, presidente del Sudan dal 1989, è stato condannato dalla Corte di Giustizia dell’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità in relazione al conflitto nel Darfur. Successivamente, ha intrapreso una lotta di religione armata contro il Sud Sudan in prevalenza cristiano.  Nel Paese, soggetto alla sharia, la legge islamica, permangono restrizioni ai diritti politici, alle libertà d’espressione, riunione e associazione. I conflitti armati, il banditismo e gli scontri intertribali continuano a provocare metodiche violazioni dei diritti umani.

Parlare della Somalia significa parlare di uno Stato precipitato ormai da anni nel caos e nella devastazione della guerra civile, in cui permane attiva e minacciosa la presenza delle “Corti Islamiche” e delle milizie di “al-Shabaab”, di matrice integralista islamica e cellula di Al Qaeda. Si calcola che dal 1991 ad oggi il costo del conflitto in vite umane sia stato di almeno 500.000. Incalcolabile il numero degli sfollati e dei rifugiati.

Il Mali è inserito tra i 25 Paesi più poveri al mondo, oltre un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nonostante il cessate il fuoco del 2013, seguito all’offensiva di tuareg ed islamisti che aveva imposto la sharia in diverse zone del Paese, la situazione non si è stabilizzata: agli attentati nei confronti di civili e operatori ONU il governo risponde con rappresaglie indiscriminate.

Questa è, molto sinteticamente, “casa loro”. Questo è ciò da cui fuggono le centinaia di migliaia di persone che sbarcano sulle coste italiane. Fuggono da regimi dittatoriali, dalla violenza, dalla devastazione, dalla sistematica violazione dei diritti umani. Percorrono migliaia di chilometri in condizioni sub umane perché non hanno più nulla da perdere. In questo tragico contesto, allora,“aiutarli in casa loro” significa invocare l’impraticabile, diventa lo slogan vuoto e ipocrita di chi evita consapevolmente di confrontarsi con l’ingiustizia e la disuguaglianza che caratterizzano da sempre il continente africano e con le responsabilità di un colonialismo vecchio e nuovo che noi, Europa, facciamo spesso finta di non avere.

 

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